Disabilità intellettiva e disturbi del neurosviluppo

La definizione puramente etimologica del termine disabilità esprime la mancanza o l’assenza di un’abilità a causa di una disfunzionalità sottostante. Ai fini di inquadrare in modo più accurato tale termine, si precisa che esso si distingue sia da quello di menomazione, che indica un’anomalia psicologica, strutturale o funzionale, che di handicap, che definisce una condizione svantaggiata a livello individuale in termini di rispetto del ruolo e degli obblighi sociali previsti a causa di una menomazione o di una disabilità (Patel et al., 2020). Il costrutto di disabilità è strettamente correlato a quello di funzionamento globale, inteso come la totalità delle varie aree che determinano l’organizzazione della vita di un individuo; generalmente un funzionamento è considerato buono o ottimale nella misura in cui un individuo possiede la capacità di lavorare, di sviluppare e di mantenere una rete di relazioni sociali e di vivere legami affettivi duraturi ed emotivamente soddisfacenti (Balestrieri et al., 2014). Pertanto, la disabilità si delinea come una compromissione in uno o più aspetti del funzionamento globale, tale per cui un individuo può manifestare delle lacune nella gestione e nell’organizzazione di questi, con conseguenti difficoltà nelle funzioni e nelle strutture corporee, nelle attività sociali ed ambientali e nella sfera personale e relazionale.
All’interno del più generale costrutto di disabilità si inserisce quello della disabilità intellettiva. Quando si parla di disabilità intellettiva, si ha a che fare con una condizione clinica piuttosto eterogenea e complessa caratterizzata da deficit nell’area cognitiva del funzionamento, unitamente ad una riduzione della capacità di rispondere in maniera adattiva alle richieste del contesto ambientale e sociale. Sebbene nel corso del tempo tale condizione sia stata indicata con diverse terminologie, ad oggi la dicitura di disabilità intellettiva ha riscosso un generale consenso all’interno della comunità scientifica tanto da permetterne l’introduzione nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5), andando a sostituire l’espressione di ritardo mentale precedentemente utilizzata; difatti contro quest’ultima sono state mosse alcune critiche, non ultima quella di essere un termine spregiativo e denigratorio. Una propensione altrettanto concreta in questa direzione, per citare un altro esempio, era già stata evidente nella decisione dell’American Association on Mental Retardation (AAMR) di rinominare l’associazione stessa come American Association on Intellectual and Developmental of Disabilities (AAIDD), a sottolineare l’equivalenza delle due espressioni in termini di diagnosi (Shea, 2012).
Nel DSM-5, la disabilità intellettiva viene collocata in più ampio gruppo di disturbi, etichettati come Disturbi del Neurosviluppo, caratterizzati da deficit nel funzionamento individuale con esordio nell’età evolutiva; oltre alla disabilità intellettiva, sono inclusi i disturbi della comunicazione, il disturbo dello spettro dell’autismo, il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD), il disturbo specifico dell’apprendimento (DAS), il disturbo del movimento, il disturbo da tic. La definizione più propriamente clinica proposta inquadra la disabilità intellettiva come un disturbo con esordio nel periodo dello sviluppo dovuto ad un malfunzionamento del sistema nervoso centrale che sottende deficit del funzionamento sia intellettivo che adattivo negli ambiti concettuali, sociali e pratici (APA, 2013). Questi ultimi, in maniera più specifica, riguardano, per il dominio concettuale, le competenze linguistiche, le abilità di lettura, scrittura, matematica, ragionamento, memoria e le conoscenze generiche; per quello sociale, la capacità empatica, il giudizio sociale e interpersonale, la capacità di comunicazione, la capacità di fare e mantenere amicizie e capacità similari, mentre per l’ambito pratico interessano la gestione di ambiti personali come il sapersi prendere cura di se stessi, la responsabilità sul lavoro, la gestione del denaro o le attività svolte nel tempo libero, e nel caso di soggetti più piccoli anche l’aspetto organizzativo della scuola e dei compiti di lavoro. Il concetto di disabilità intellettiva del DSM-5 ha trovato una corrispondenza anche nell’undicesima ed ultima versione dell’International Classification of Diseases (ICD-11), che utilizza il termine Disabilità dello Sviluppo Intellettivo per indicare “un gruppo di condizioni eziologicamente diverse che hanno origine durante il periodo di sviluppo caratterizzate da un funzionamento intellettuale significativamente inferiore alla media e da un comportamento adattivo di circa due o più deviazioni standard al di sotto della media” (WHO, 2015).
Secondo il DSM-5, la diagnosi di disabilità intellettiva deve soddisfare principalmente tre criteri:
  1. Deficit delle funzioni intellettive, come ragionamento, problem solving, pianificazione, pensiero astratto, capacità di giudizio, apprendimento scolastico e apprendimento dall’esperienza, confermati sia da una valutazione clinica sia da test di intelligenza individualizzati e standardizzati;
  2. Deficit del funzionamento adattivo che porta al mancato raggiungimento degli standard di sviluppo e socioculturali di autonomia e di responsabilità sociale. Senza un supporto costante, i deficit adattivi limitano il funzionamento in una o più attività della vita quotidiana, come la comunicazione, la partecipazione sociale e la vita autonoma, attraverso molteplici ambienti quali casa, scuola, ambiente lavorativo e comunità;
  3. Esordio dei deficit intellettivi e adattivi durante il periodo dello sviluppo. L’età e le caratteristiche dell’esordio dipendono dall’eziologia e dalla gravità della menomazione della struttura e/o delle funzioni cerebrali.
La diagnosi presuppone che l’aspetto deficitario in almeno uno degli ambiti sovraesposti sia tale da necessitare di un supporto adeguato.
Un ulteriore aspetto di cambiamento della quinta edizione rispetto alle versioni precedenti riguarda l’importanza attribuita ai punteggi di QI. Si definisce Quoziente di Intelligenza (QI) il rapporto tra l’Età Mentale (EM), valutata da uno o più test, e l’Età Cronologica (EC) del soggetto, moltiplicando tale rapporto per cento [QI= EM/EC*100], dove l’EC corrisponde all’effettiva età del soggetto e l’EM invece, a quella che gli viene attribuita dopo che questo ha risolto dei problemi o delle prove attitudinali risolti già con esito positivo da soggetti della sua stessa età (Binet & Simon, 1905; Stern, 1912). In un’ottica di punteggio, la disabilità intellettiva si distingue in :
  • Lieve, livello del QI da 50-55 a circa 70
  • Moderato, livello del QI da 35-40 a 50-55
  • Grave, livello del QI da 20-25 a 35-40
  • Estrema, livello del QI sotto 20 o 25
Tuttavia, attualmente si è arrivati a pensare che ai fini di una più corretta e adeguata diagnosi i punteggi di QI da soli non possano dare una valutazione completa del livello di disabilità, poiché è possibile che soggetti con punteggi di QI ritenuti adeguati mostrino però problematicità a livello comportamentale pari a quelle di soggetti con un QI inferiore (Saad & Adel, 2019). Ragion per cui, pur riconoscendo l’utilità dei punteggi di QI unitamente ad un giudizio clinico, nel DSM-5 si è deciso di spostare il focus della diagnosi sul funzionamento adattivo: il presupposto principale di tale cambiamento di prospettiva risiede nel fatto che è proprio il livello di funzionamento adattivo a determinare il grado di supporto necessario, e, quindi anche il livello di compromissione. Inoltre, viene suggerito che in caso di valutazioni difficoltose o comunque insufficienti è prevista una particolare diagnosi di disabilità intellettiva senza specificazione e, nel caso di bambini di età inferiore ai 5 anni, di una diagnosi di ritardo globale dello sviluppo. Oltre a ciò, si precisa la necessità di considerare all’interno del contesto diagnostico alcuni fattori principali che possono influenzare la valutazione e l’interpretazione dei test del funzionamento intellettivo e adattivo, come ad esempio il background socio-culturale, le condizioni mediche ed eventuali disturbi mentali associati e le caratteristiche dell’esaminatore (Patel et al., 2020).
In un’ottica clinica, sono sostanzialmente l’età di insorgenza dei primi sintomi e la gravità dei deficit a definire le manifestazioni cliniche, lasciando spazio all’ipotesi che più gravi sono i deficit, più è anticipata l’età di comparsa dei primi segni di disabilità (Patel et al., 2018). I soggetti con disabilità di grado lieve , che rappresentano la percentuale maggiore trai i casi di disabilità intellettiva, mostrano minime compromissioni senso-motorie, un funzionamento adeguato nella cura personale e capacità comunicative relativamente sufficienti per le esigenze quotidiane; solitamente, la diagnosi non viene effettuata prima dei 5-6 anni. Hanno difficoltà nell’acquisizione di abilità di lettura e scrittura, orientamento temporale ed utilizzo del denaro, mostrano un’immaturità nelle interazioni sociali e difficoltà nella regolazione delle emozioni e dei comportamenti. Nei soggetti adulti sono evidenti delle compromissioni nei processi di astrazione e nelle funzioni esecutive, tuttavia è possibile il raggiungimento di un’autonomia lavorativa che consenta un discreto livello di sostentamento, ma rimane comunque necessario il mantenimento di un supporto. I soggetti con disabilità di grado moderato, la cui diagnosi viene fatta intorno ai 3-5 anni, possiedono capacità comunicative basilari e per lo più circoscritte a bisogni concreti; in età prescolare lo sviluppo del linguaggio e dei prerequisiti è lento e discontinuo. Con il controllo di un adulto possono provvedere alla cura della propria persona e allo svolgimento di lavori semplici e mostrano una relativa autonomia in luoghi familiari; spesso hanno delle difficoltà nella gestione delle relazioni interpersonali e in alcuni casi è necessaria una supervisione costante, nei confronti della quale può svilupparsi una dipendenza. I soggetti con disabilità di grado grave vengono solitamente individuati in età molto precoci, intorno ai 3 anni, principalmente per le compromissioni nell’area senso-motoria che risultano piuttosto evidenti sin dai primi anni di vita. Le capacità linguistiche sono minime o assenti e le competenze scolastiche sono limitate al riconoscimento di parole semplici, funzionali alla comunicazione dei bisogni fondamentali. Se opportunatamente supportati, possono acquisire minime competenze per la cura della propria persona. Da adulti possono svolgere attività semplici in ambienti protetti, anche se è necessario un supporto costante. Infine, i soggetti con disabilità di grado estremo presentano importanti compromissioni senso-motorie e marcate limitazioni nell’area motoria, il che permette di effettuare una diagnosi molto presto, già dai 2 anni di età. Il linguaggio è quasi del tutto assente o fortemente compromesso, unitamente a ridotti livelli di comprensione degli stimoli ambientali, e sostanzialmente la comunicazione è di tipo mimico-gestuale. Non sono in grado di svolgere le principali attività quotidiane e necessitano dunque di un sostegno e di una guida adeguata in maniera continua perennemente.
Per quanto concerne la valutazione del funzionamento intellettivo, tra i diversi test standardizzati esistenti le scale Wechsler, e soprattutto la Wechsler Adult Intelligence Scale (WAIS), rappresentano lo strumento più noto ed utilizzato. Benché queste scale fossero state concepite inizialmente per valutare il livello d’intelligenza globale di un soggetto, hanno dimostrato una notevole efficacia anche nell’indagine di altri aspetti correlati, come quello di misurare l’eventuale deterioramento mentale, di differenziare la tipologia di intelligenza di un soggetto e di individuare eventuali carenze in particolari funzioni cognitive. Queste scale comprendono la WAIS, la Wechsler Intelligence Scale for Children (WISC) e la Wechsler Preschool and Primary Scale of Intelligence (WPPSI); queste ultime due rappresentano i corrispettivi della scala WAIS per fasce di età al di sotto dei 16 anni.
Di seguito, viene presentata una breve esposizione delle scale, in maniera più dettagliata in riferimento alle versioni attualmente in uso (Wechsler, D. 1949; 1955; 1967;1974; 1981; 1989; 1991; 1997; 2002; 2003; 2008; 2013; 2014 ).
Lo strumento originale della serie delle scale Wechsler fu la Wechsler-Bellevue Intelligence Scale (Wechsler, 1939), che è stata soggetta ad una serie di revisioni che hanno portato allo sviluppo della WAIS. La scala WAIS è costituita da 11 subtest, 6 dei quali costituiscono la Scala Verbale e misurano le abilità cognitive di natura prevalentemente verbale mentre gli altri 5 compongono la Scala di Performance e indagano le abilità cognitive di natura principalmente visiva, spaziale e manipolativa. Dalle due scale è possibile ottenere rispettivamente il Quoziente Intellettivo Verbale (QI-V) e il Quoziente Intellettivo di Performance (QI-P), mentre la media di questi fornisce il QI globale. Nella successiva edizione, la WAIS-R, sono stati rivisti o eliminati quegli item che sembravano obsoleti e ridondanti e ne sono stati aggiunti dei nuovi; inoltre è stato modificato l’ordine di somministrazione delle prove, che se nella WAIS prevedeva prima tutti i subtest della Scala Verbale e, successivamente, tutti quelli della Scala di Performance, nella WAIS-R si preferisce una somministrazione alternata dei subtest delle due Scale. Altri lavori di revisione hanno permesso infine di giungere alla versione attualmente in uso, la WAIS-IV. La WAIS-IV consiste in una batteria di 15 subtest, somministrabili a soggetti in una fascia di età compresa tra  i 16 e i 90 anni, di cui 10 sono fondamentali e 5 supplementari da somministrare in caso sia necessario approfondire situazioni specifiche con un’ulteriore indagine. Le Scale Verbali e di Performance sono state definitivamente eliminate e sostituite da punteggi derivati da 4 indici: l’Indice di Comprensione Verbale (ICV), l’Indice di Ragionamento Visuo-Percettivo (IRP), l’Indice di Memoria di Lavoro (IML) e l’Indice di Velocità di Elaborazione (IVE); il punteggio di QI globale deriva dai punteggi di tutti 4 gli indici. Inoltre è possibile ottenere altri due indici compositi, l’Indice di Capacità Generale (ICG), basato sui subtest di VCI e PRI, e l’Indice di Competenza Cognitiva (ICC), composto dai subtest di IML e IVE.
La WISC nasce come estensione della WAIS per valutare le capacità cognitive di bambini d’età compresa tra i 6 e i 16 anni. Anche questo strumento è stato oggetto di diverse operazioni di revisione, culminate nella versione attualmente utilizzata, che è la WISC-V. Se una delle ultime versioni, la WISC-IV, manteneva sostanzialmente la struttura della WAIS, con 10 subtest principali e 5 supplementari riferibili a 4 indici (Indice di Comprensione verbale, Indice di Ragionamento visuo-percettivo, Indice di Memoria di lavoro e Indice di Velocità di elaborazione), da cui estrapolare il QI globale del bambino, nella quinta versione gli indici diventano 5: permangono Indice di comprensione verbale, Indice di memoria di lavoro e indice di Velocità di elaborazione, mentre l’Indice di Ragionamento viene scisso in Indice di Capacità visuo-spaziale (VSI) e Indice di Ragionamento Fluido (FRI). La WISC-V consta 10 test principali, 2 per ogni indice, e 5 subtest supplementari. Il QI complessivo è dato da 7 dei 10 subtest primari, 2 di comprensione verbale, 1 visuo-spaziale, 2 di ragionamento fluido, 1 di memoria di lavoro e 1 di velocità di elaborazione: tale diversa modalità di calcolo nasce da alcune analisi empiriche che hanno rivelato che in questo modo si ottiene l’equilibrio ottimale tra previsione del rendimento scolastico e criteri clinici chiave, mantenendo alta affidabilità e altri standard psicometrici. Ad ogni modo, si ritiene utile la somministrazione di tutti i 10 subtest principali, così da ottenere sia il QI globale che i punteggi parziali complessivi rispetto a ciascun indice (Weiss et al., 2019).
Anche la WPPSI indaga il funzionamento intellettivo, in bambini dai 2 ai 7 anni. La versione attualmente in uso, la WPPSI-IV, consta 15 subtest totali tra principali e supplementari e considera separatamente due fasce di età, una dai 2 ai 3 anni e l’altra dai 4 ai 7, con differenze nella somministrazione dei diversi subtest. Infatti, il QI globale per la prima fascia è dato da 3 dei 5 indici strutturali dello strumento, ossia l’Indice di Comprensione Verbale, l’Indice di Capacità visuo-spaziale e l’Indice di Memoria di lavoro, mentre per la seconda fascia vengono inclusi nel QI globale anche i punteggi degli Indici di Ragionamento fluido e di Velocità di elaborazione.
In generale, la notorietà di questi strumenti è stata data anche dal fatto che i costrutti misurati dalle scale Wechsler sono rimasti generalmente gli stessi e notevolmente coerenti tra versioni e revisioni diverse (Niileksela & Reynolds, 2019).
In conclusione, tornando al costrutto della disabilità intellettiva e ampliando il quadro clinico sovraesposto, da un punto di vista epidemiologico, la prevalenza di disabilità intellettiva nella popolazione generale si aggira tra l’1% e il 3%, con una prevalenza nel genere maschile rispetto a quello femminile in un rapporto 2:1 (Patel et al., 2018). Per quanto riguarda invece l’identificazione dell’esordio, generalmente soggetti che presentano forme più gravi di disabilità intellettiva tendono a essere identificati più precocemente durante la fase di sviluppo, in modo particolare nei casi in cui sono presenti sindromi associate con uno specifico fenotipo identificabile già alla nascita, come nel caso della sindrome di Down, mentre individui con forme più lievi e privi di sindromi congenite con caratteristiche fisiche riconoscibili molto spesso non sono identificati se non durante uno stadio più tardivo dello sviluppo. Oltre a condizioni prettamente genetiche, è possibile individuare casi di forme acquisite, il cui esordio è generalmente improvviso in seguito a malattie quali meningite o encefalite o a un trauma cranico verificatosi durante il periodo dello sviluppo. Per quanto concerne l’eziologia, prevale una visione multifattoriale, così come per la maggior parte delle condizioni psicopatologiche, tale per cui l’insorgenza della disabilità intellettiva può essere determinata sia da componenti biologiche che psicosociali; sono stati identificati diversi fattori prenatali, perinatali e postnatali associati significativamente ad un aumentato rischio di disabilità intellettiva (Huang et al., 2016).
In una prospettiva di comorbidità, i soggetti con disabilità intellettiva presentano un rischio tra il 30% e il 50% maggiore di ricevere una diagnosi per un disturbo psichiatrico. Le condizioni che si verificano più frequentemente in associazione includono il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD), i disturbi d’ansia, i disturbi dello spettro autistico, il disturbo da movimento stereotipato e i disturbi da controllo degli impulsi (Einfeld et al., 2011; Tural et al., 2019) Pertanto è largamente consigliato l’utilizzo di un approccio multidisciplinare che convogli l’unione di più specialisti in virtù della complessità della condizione.
In merito al decorso del disturbo, i fattori principalmente coinvolti sono rappresentati dall’andamento delle sottostanti condizioni mediche generali e da aspetti ambientali: a tal proposito, è importante sottolineare che soggetti che hanno ricevuto una diagnosi di disabilità intellettiva in età evolutiva, per lo più di grado lieve, possono sviluppare buone capacità adattive in altri domini, al punto da non risultare più idonei all’assegnazione della diagnosi originaria in età più avanzata. Occorre infatti sottolineare che l’unione delle conoscenze e dei vari contributi apportati dalla letteratura in merito hanno favorito l’emergere di un nuovo modo di pensare alla disabilità che si basa sull’idea che essa non rappresenti una condizione definita soltanto dalle limitazioni funzionali ma che risenta fortemente anche dell’interazione con l’ambiente circostante (Schalock, 2004). Ed è anche grazie all’accento posto sull’importanza di questa influenza che è stato possibile rivalutare la disabilità intellettiva come una condizione che potrebbe essere migliorata dalla fornitura di supporti, piuttosto che da una disabilità statica permanente.

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